Gestione del paziente con dmt2 in ospedale
Introduzione
Il diabete mellito e più in generale l’iperglicemia sono presenti in circa il 40% dei pazienti ricoverati e di solito sono associati ad un aumento delle complicanze intercorrenti, della durata del ricovero e di mortalità (1). In corso di pandemia COVID-19 l’associazione con il diabete ha determinato un ulteriore incremento di mortalità e di complicanze polmonari correlate (2).
Non solo l’iperglicemia, ma anche l’ipoglicemia nosocomiale è associata ad una prognosi peggiore, che riflette la gravità della condizione e la coesistenza di maggiori comorbilità (3). Studi sperimentali hanno dimostrato che l’ipoglicemia determina un allungamento del tratto QT, che può precipitare un’aritmia cardiaca fatale (4). Per questi motivi sia l’iperglicemia che l’ipoglicemia devono essere prevenuti o comunque evitati nei pazienti diabetici ricoverati.
La terapia insulinica è considerata la pietra miliare del trattamento dell’iperglicemia nei pazienti ricoverati (5), ma recenti studi hanno mostrato l’efficacia di farmaci non insulinici nel trattamento del diabete tipo 2 anche in un setting ospedaliero (6). L’impiego della tecnologia applicata al diabete è stato valorizzato durante la pandemia COVID-19, mediante l’adozione di monitoraggio continuo remoto del glucosio e sistemi di somministrazione automatica d’insulina (7).
Linee guida e raccomandazioni
Le società scientifiche internazionali più accreditate hanno proposto linee guida per il trattamento del diabete in ospedale basate su evidenze scientifiche purtroppo non qualificate.
L’American Diabetes Association (ADA) propone annualmente un set aggiornato di raccomandazioni per il trattamento di pazienti diabetici ricoverati negli standard di cura (8). Nel Regno Unito la Joint British Diabetes Societies (JBDS) ha realizzato linee guida su vari aspetti di cura per specifiche popolazioni, e relative al COVID-19 (9). L’Endocrine Society in collaborazione con altre società, ha pubblicato linee guida per il trattamento del diabete ed iperglicemia in un setting ospedaliero non intensivo nel 2012 (1). Data l’inadeguatezza delle evidenze scientifiche disponibili, queste linee guida sono contraddittorie, soprattutto sugli obiettivi glicemici e l’impiego di farmaci diversi dall’insulina (6).
Diagnosi e obiettivi terapeutici
La diagnosi d’iperglicemia in ospedale si pone quando una glicemia venosa prelevata in qualsiasi momento risulta maggiore di 140 mg/dl (8). Per quanto riguarda gli obiettivi terapeutici una glicemia compresa tra 80 e 110 mg/dl riduce la mortalità nei pazienti chirurgici in terapia intensiva (10). Tuttavia, analoghi risultati non sono stati confermati in gruppi di pazienti più eterogenei (1). Inoltre, lo studio NICE-SUGAR ha mostrato un aumento di mortalità nei pazienti trattati con terapia insulinica intensiva in area critica (11). L’elevato rischio d’ipoglicemia iatrogena dimostrata in diversi studi ha indotto le società scientifiche a raccomandare obiettivi glicemici meno intensivi (1).
L’ADA e l’American Association of Clinical Endocrinologists (AACE) raccomandano il raggiungimento di una glicemia compresa tra 140 e 180 mg/dl per la maggioranza dei pazienti ricoverati in terapia intensiva, con la possibilità di arrivare fino a 110 mg/dl in centri clinici accreditati (1). Per i pazienti ricoverati non critici la società statunitense di endocrinologia e ADA-AACE raccomandano obiettivi glicemici pre-prandiali e random rispettivamente inferiori a 140 mg/dl e 180 mg/dl (1,12). Recentemente, l’ADA ha rilasciato un’ulteriore raccomandazione per la maggior parte dei pazienti medici e chirurgici ponendo gli obiettivi glicemici tra 140 e 180 mg/dl, ad eccezione dei pazienti con grave comorbilità e/o terminali, in cui la glicemia può superare i 200 mg/dl (8) (Figura 1).
Le linee guida del JBDS, criticate per il possibile rischio d’ipoglicemia, raccomandano valori glicemici con range più ampio tra 108 e 180, con range accettabile tra 72 e 216 mg/dl (13,14).
Terapia insulinica dell’iperglicemia
La terapia insulinica infusionale continua per via endovenosa è la modalità di somministrazione da adottare in terapia intensiva e nella maggior parte dei pazienti diabetici con chetoacidosi e sindrome iperpglicemica iperosmolare, mediante l’ausilio di algoritmi dedicati (1,13,15). Tuttavia, nelle forme lievi di chetoacidosi è possibile impiegare anche frequenti iniezioni sottocutanee d’insulina, così come nei pazienti con COVID-19, allo scopo di ridurre i controlli della glicemia capillare per motivi di sicurezza (16). Quando la glicemia si stabilizza per almeno 4-6 ore, il gap anionico si normalizza e l’acidosi si risolve, si può passare dall’infusione endovenosa alla somministrazione sottocutanea d’insulina, stimando la posologia insulinica sulla base della quantità infusa nelle 12 ore che precedono la transizione (17).
La terapia dei pazienti non critici adotta lo schema basal-bolus, mentre la somministrazione insulinica occasionale (sliding scale), sulla base del valore attuale della glicemia, espone i pazienti a picchi iperglicemici (12). Diversi studi hanno confermato che l’approccio basal-bolus è associato ad un miglior controllo glicemico rispetto allo sliding scale nei pazienti con diabete tipo 2 (18-19). Un approccio basal-plus (insulina basale con 1-2 dosi d’insulina pre-prandiale) è preferibile nei pazienti con lieve iperglicemia (20).
La terapia insulinica basal-bolus ridotta all’80% della dose ospedaliera dovrà essere consigliata alla dimissione nei pazienti con diabete scompensato al momento del ricovero. Per i pazienti con HbA1c compresa tra 7 e 9% potrà essere continuata l’insulina basale eventualmente associata a terapia orale. Infine, per i pazienti con HbA1c ìnferiore a 7% può essere appropriato il ritorno alla terapia precedente il ricovero (44).
Altri farmaci non insulinici
Sebbene le linee guida delle maggiori società scientifiche sconsiglino l’impiego di farmaci non insulinici nel trattamento dell’iperglicemia in ospedale, studi recenti ne dimostrano l’efficacia e sicurezza nei pazienti con diabete tipo 2 con lieve iperglicemia (21-28). Al contrario, i farmaci orali convenzionali (metformina, sulfoniluree e glitazoni) non sono consigliati per vari motivi.
L’impiego della metformina non è supportato da evidenze adeguate, e nei pazienti diabetici con COVID-19 è associato ad un aumento significativo dell’incidenza dell’acidosi lattica (29). L’uso delle sulfoniluree è fortemente sconsigliato per l’elevato rischio d’ipoglicemia (30). In modo analogo i glitazoni non sono consigliati a causa del rischio di ritenzione idrica e scompenso cardiaco (31).
Nell’ambito dei farmaci innovativi (inibitori DPP-4 e SGLT2, e agonisti recettoriali GLP-1) diversi studi hanno dimostrato che gli inibitori DPP-4 sono efficaci, ben tollerati e con basso rischio d’ipoglicemia nei pazienti con lieve/moderata iperglicemia (21-26).
Sitagliptin associato ad insulina basale rispetto allo schema basal-bolus ha determinato un miglioramento simile del controllo glicemico, ma con dosi inferiori d’insulina (28). Anche saxagliptin ha riportato risultati analoghi in pazienti con glicemia al momento del ricovero di circa 150 mg/dl (25). La terapia con inibitori DPP-4 è stata impiegata in pazienti diabetici con COVID-19 e ha dimostrato una riduzione della mortalità (32).
È stato dimostrato che empagliflozin ritarda notevolmente l’inizio della terapia insulinica (Figura 2), riduce la necessità di grandi aumenti della dose di insulina nei pazienti che già ne fanno uso rispetto al placebo, e facilita riduzioni prolungate di fabbisogno di insulina senza successivo peggioramento del controllo glicemico (33). Empagliflozin ha, inoltre, determinato, una riduzione dell’endpoint combinato di peggioramento dell’insufficienza cardiaca, riospedalizzazione o morte a 60 giorni, pur non migliorando la dispnea, i valori di BNP, le risposta diuretica e la durata del ricovero rispetto a placebo (34). In pazienti con insufficienza cardiaca con frazione d’eiezione ridotta, empagliflozin ha ridotto il rischio di peggioramento della condizione nei pazienti ricoverati, con beneficio osservato precocemente e mantenuto per tutta la durata dello studio (35). Risultati analoghi sono stati ottenuti con dapagliflozin e canagliflozin (36-37).
Tra gli agonisti del recettore del GLP-1, exenatide in associazione con insulina basale ha portato una maggiore percentuale di pazienti con diabete tipo 2 ricoverati all’obiettivo glicemico compreso tra 70 e 180nmg/dl (78% contro 62% e 63%, p=0,023) (27).
Il trattamento preoperatorio con liraglutide in pazienti sottoposti ad intervento cardiochirurgico migliora il controllo glicemico perioperatorio (38). La dulaglutide riduce la dose d’insulina a la frequenza d’iniezioni in pazienti ricoverati con iperglicemia indotta da steroidi (39)
Gestione dell’iperglicemia nella pandemia COVID-19
La pandemia COVID-19 ha profondamente cambiato l’approccio al paziente diabetico ricoverato. Nuovi protocolli terapeutici sono stati adottati ed implementati per garantire una migliore assistenza e al tempo stesso favorire la sicurezza degli operatori. La stratificazione del rischio, la terapia a distanza, lo sviluppo di nuovi algoritmi terapeutici, l’impiego di farmaci non insulinici e l’uso del monitoraggio continuo del glucosio sono stati adottati con successo (40-41). La fattibilità di questo nuovo approccio è stata confermata in diversi studi (42-43)
Conclusioni
L’iperglicemia nei pazienti ricoverati è frequente ed associata a prognosi peggiore. Le maggiori società scientifiche raccomandano di mantenere la glicemia tra 140 e 180 mg/dl. Nei pazienti con diabete tipo 2 scompensato, grave comorbilità o in trattamento steroideo l’insulina basal-bolus è la terapia di prima scelta, ma in quelli con iperglicemia moderata è consigliabile un approccio insulinico basal-plus con o senza terapia orale.
Per i pazienti con iperglicemia inferiore a 200 mg/dl l’impiego di inibitori DDP-4 o SGLT2 o agonisti del recettore GLP-1 con o senza insulina basale consente di ottenere un buon controllo riducendo il fabbisogno insulinico senza aumentare il rischio d’ipoglicemia. L’uso della tecnologia per il trattamento dei diabetici ricoverati si sta diffondendo rapidamente soprattutto tra i pazienti affetti da COVID-19.
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